Questione di sguardi
Nella pagina evangelica di questa domenica, tratta dall’ultima parte del cosiddetto “discorso della pianura” del 6° capitolo di Luca, Gesù sottolinea che il centro della vita dell’uomo è il cuore. Non da intendersi come la semplice sede dei sentimenti – come spesso si ritiene – ma il sacrario più intimo del suo essere, la sede delle radici della vita, la parte più profonda di sé, dove nascono i pensieri, i desideri, i progetti. È lì che si decide per il bene o per il male, si vive il rapporto con Dio ed è lì, quindi, che tutto ha inizio.
Nessuno può conoscere il cuore, se non Dio solo, come dice anche il Salmo 139: “Signore, tu mi scruti e mi conosci, tu conosci quando mi siedo e quando mi alzo, intendi da lontano i miei pensieri, osservi il mio cammino e il mio riposo, ti sono note tutte le mie vie. La mia parola non è ancora sulla lingua ed ecco, Signore, già la conosci tutta” (vv. 1-4).
Questo primato del cuore è un aspetto fondamentale dell’insegnamento di Gesù, che lo ha spesso posto in contrasto con scribi e farisei, coloro che si soffermavano sulle forme, l’osservanza puramente esteriore della legge, senza badare alle radici dell’agire e del pensare umano. Verso questi Gesù usa parole forti, chiamandoli addirittura “sepolcri imbiancati”, eleganti e puliti all’esterno, ma all’interno pieni di morte e putridume.
Questo movimento di interiorizzazione, già presente in Geremia ed Ezechiele, primi annunciatori di un’alleanza nuova, non più scritta su tavole di pietra, ma dentro i cuori degli uomini, trova nella parola di Gesù e nel suo mistero pasquale il pieno compimento. Il cristianesimo, dunque, non è una religione delle forme esteriori, di pura osservanza legale e rituale – come molti sono ancora portati a pensare – ma è prima di tutto un cammino di guarigione e conversione del cuore, ossia delle motivazioni più profonde del nostro dire ed agire, ad opera della grazia che Cristo ci dona in virtù della sua Pasqua.
È questo il senso del parlare di Gesù, quando si riferisce al frutto, come prova della bontà dell’albero. Se l’albero del nostro cuore è sano, umile, orientato a Dio, i frutti della nostra vita, ossia le nostre parole, i nostri gesti, i nostri atteggiamenti, saranno buoni ed edificanti; al contrario, quando questo albero è malato, non ci si può aspettare alcun frutto buono e commestibile, ma soltanto amarezza e qualche volta persino veleno.
Con molta sincerità chiediamoci: quali frutti genera la mia vita? Cosa diffondo attorno a me? Dolcezza, edificazione, consolazione, oppure amarezza, divisione, negatività e veleni di morte? Dopo aver estirpato con la grazia di Dio in una lotta costante le radici più grosse del peccato in noi, lavorare sulla guarigione del cuore ci porta anche al passo successivo, quello di affinare la capacità di discernimento e di giudizio sulle situazioni, permettendo di aiutare anche i nostri fratelli e sorelle a trovare la strada giusta.
In questa linea si colloca l’insegnamento del Maestro circa la cecità o la chiarezza di visione che ciascuno di noi ha nel proprio sguardo spirituale. Se non guardiamo seriamente e in prima istanza dentro di noi, con uno sguardo umile, onesto e veritiero, rischiamo addirittura di scusare grossi atteggiamenti sbagliati della nostra vita, che come travi ingombranti impediscono la chiarezza del nostro sguardo, presumendo di voler intervenire nel correggere la vita degli altri sin nelle più piccole imperfezioni.
In continuità col messaggio di domenica scorsa, dunque, dove venivamo invitati ad essere misericordiosi, come è misericordioso il Padre celeste, così anche oggi Gesù ci invita ad essere sempre concentrati su di Lui in quell’atteggiamento umile, che permette di mantenere il cuore nella “santa inquietudine”, di chi si sente sempre peccatore, in cammino, bisognoso di conversione e mai all’altezza del suo modello, libero dalla presunzione di essere superiore al Maestro, ma aspirando con serietà e impegno a riprodurre nella propria esistenza i tratti del suo volto e del suo cuore.
(Commento a cura di Don Luciano Labanca)